Greenwashing: «È vero ma non troppo...»
Sempre più frequentemente le aziende, anche del settore tessile, si auto-definiscono sostenibili ed etiche. Ma è sempre vero?
Il termine «Greenwashing» nasce intorno agli anni Novanta negli Stati Uniti quando, con l’obiettivo di ripulirsi l’immagine dalle accuse di essere inquinanti, molte aziende hanno iniziato a trattare i temi di sostenibilità ambientale ed eticità, pur non essendo portatrici di tali valori.
Il neologismo, derivante dall’unione delle parole green, il colore per antonomasia associato all’ambiente, e whitewash che, figurativamente, assume il senso di mascherare, da allora viene utilizzato per identificare il comportamento ingannevole di queste realtà.
Rispolverato negli ultimi anni in concomitanza della rinnovata sensibilità ai temi ambientali da parte delle generazioni Millennials e Z, sono molte le aziende scivolate su questa verde buccia di banana, non ultima la compagnia aerea Ryanair costretta a ritirare uno spot pubblicitario.
La tendenza è tuttavia chiara: sono i consumatori a richiedere una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale. Secondo un'inchiesta di Altroconsumo, che ha coinvolto 1.625 persone tra i 25 e i 74 anni in tutta Italia, ben il 60% degli intervistati sono consapevoli del fatto che le proprie abitudini alimentari impattino sul pianeta, ed il 25% di essi sono molto attenti a valutare l'acquisto di un prodotto in base alla sua sostenibilità. Per questo motivo, le aziende non possono più fare finta di nulla, ed in molte lo stanno già facendo con cognizione di causa e credibilità.